Venerdì, 13 Dicembre 2024

Intelligenza del fuoco, stupidità dell’uomo

Illustri ricercatori ci informano che sarebbe il possesso del fuoco a distinguere gli umani dagli altri animali e a renderli ciò che sono. Charles Darwin riconosceva nell’utilizzo del fuoco la più grande scoperta dell’uomo, insieme

al linguaggio. Ma fu l’antropologo Claude Lévi-Strauss a spiegare, nel suo saggio Il crudo e il cotto pubblicato nel 1964, quanto proprio l’uso del fuoco per cuocere i cibi segnasse, come cerniera tra natura e cultura, il passaggio dallo stadio naturale a quello delle regole sociali.

Il possesso del fuoco avrebbe quindi scatenato quell’insieme di cambiamenti morfologici, sociali e psicologici che hanno portato una popolazione di animali dalle fattezze scimmiesche ad evolversi in quella forma di vita che noi chiamiamo Homo. Riprende e approfondisce il tema Richard Wrangham, docente di antropologia biologica a Harvard, che nel 2011 pubblica il volume L’intelligenza del fuoco, nel quale si legge che intono a due milioni di anni fa, in una non meglio identificata Africa, una piccola popolazione di animali, avrebbe iniziato più o meno accidentalmente a mettere della carne sul fuoco, senza sapere quanto, passando dal crudo al cotto, questo alimento sarebbe stato più digeribile, più ricco di proteine e privo di germi potenzialmente dannosi.

“Noi essere umani siamo diversi da qualsiasi altra specie perché ci siamo adattati biologicamente a cucinare quasi tutto ciò che mangiamo, - vi si legge – in definitiva, non siamo noi ad aver inventato il fuoco, è il fuoco che ha inventato noi.”. L’abilità nel maneggiare il fuoco segna quindi il momento del “nostro diventare umani”.

A giudicare dalla grande quantità di miti presenti nelle culture dell’interno pianeta che ne riguardano l’origine, quasi sempre divina, non ci sono dubbi sull’universalità dell’assunto. Se il fuoco non è un dono degli dèi, lo si ruba come fece il titano Prometeo, lo si custodisce quale bene supremo come competeva alle sacerdotesse consacrate alla dea Vesta, quando, più di cinquecento anni prima di Cristo, il fuoco acceso dell’antica Roma era considerato garanzia di sopravvivenza, non solo materiale. Fuoco che ha una valenza spirituale per essendo “sostanza”, fenomeno fisico-chimico classificato, già da Empedocle nel V secolo a.C. come uno degli elementi costitutivi dell’universo, insieme ad aria, terra, e acqua.

Tutta questa “intelligenza”, però, messa in mani nemiche diventa devastazione e rovina. In Calabria lo si evoca in presenza di una disgrazia improvvisa e devastante con l’esclamazione “focu meu”, in casi estremi “focu rande”, grande, appunto, catastrofe spaventosa e senza rimedio, mista a stupore e sbalordimento.

“Fuoco grande” è anche il titolo del romanzo scritto da Bianca Garufi e Cesare Pavese nel 1959, espressione di una delle protagoniste, si rifaceva certamente alla frase ascoltata tante volte da Cesare Pavese nel corso del suo esilio a Brancaleone. Sappiamo quanto sia grande il fuoco acceso da mani criminali nella nostra regione. Tanto grande da incenerire cinquemila ettari di bosco solo nel corso dell’ultima Estate, con i vasti incendi dei Piani di Lopa, di Bagaladi e Bova con un patrimonio boschivo inestimabile, cinquanta ettari intorno a Polsi in piena area protetta, fino a lambire persino il tempio più antico della spiritualità aspromontana, il santuario della Madonna della Montagna, metamorfosi della arcaica Cibele, meta di pellegrinaggi votivi, tarantelle e riti collettivi.

La lista è lunga: le montagne della Sila, Taverna e Longobucco, i parchi cittadini di Catanzaro, le Serre, il grande bosco della Fossa del lupo, quando il fuoco ha oscurato il sole tra le colline dove abito, incenerito proprio alla vigilia della “Giornata del paesaggio” organizzata da Italia Nostra e associazioni locali, che ha radunato lo stesso un centinaio di persone provenienti da tutta la regione. Solo che la camminata nel bosco si è trasformata in una dolorosa gita all'inferno, tra tronchi contorti e fumanti, indignazione, incredulità e lutto. Chi sono e come spendono i soldi ricavati da questi incendi, gli uomini che hanno devastato questo bosco? Ci siamo chiesti.

Qualcuno ha ricordato Fabrizio De André che si domandava: “Tu che lo vendi, cosa ti compri di migliore?” Chissà. Squallide figure che incarnano le più oscure forze del male, alimentate da odio per se stessi e disprezzo per la vita, votati all’ autodistruzione, per lasciare su questa terra che odiano il segno evidente di un incenerimento morale.

Eppure, dopo gli incendi epocali della Sila e dell’Aspromonte si era detto “mai più” e si sono anche introdotte significative misure preventive. Ci sono una quarantina di nuovi droni, vigili del fuoco, canadair da seimila euro l’ora, si chiede aiuto al satellite, al volontariato, mentre l’articolo 423 del c.p. dichiara: “chiunque cagiona un incendio è punito con la reclusione da tre a sette anni.” Non basta. Ma certamente può servire dare più risalto ai risultati ottenuti: 43 piromani identificati e arrestati nei mesi estivi, con certezza della pena.

E dato che si tratta di una piaga globale, 79 piromani arrestati per “crimini contro il paese” in Grecia, mentre una banda al soldo di latifondisti e allevatori è stata imprigionata in Amazzonia dove il triste primato è di 53.000 incendi nei soli mesi estivi, per un totale di oltre 4 milioni di ettari di foresta distrutta. Non basta. Insieme a linee guida per la manutenzione e messa in sicurezza del territorio, monitoraggi e controlli, più efficaci sistemi di spegnimento nelle zone impervie, leggi restrittive per interventi in aree incendiate, piani straordinari di ripristino e riforestazione, campagne di sensibilizzazione anche nelle scuole e inasprimento delle pene, ci vuole una nuova consapevolezza condivisa, grande almeno quanto il fuoco.

Intanto l’autunno delle piogge riporta il fuoco dove deve stare. Sfugge all’ottusità degli uomini e torna alla sua intelligenza, protagonista di numerosi riti di purificazione, di passaggio e rinascita, ritornando ad essere lo stesso fuoco attorno al quale danzano popoli lontani ogni sera, come feci anch’io nel cuore del Mato Grosso rinnovando un patto di comunità saldato a fiamma viva. Anima della casa che ha il privilegio di custodirlo tra le sue mura, fuoco domestico e sacro al centro del culto dello stare insieme, legati al suo tepore e al suo incessante movimento cromatico, ipnotico, misterioso di fronte al quale si consumava il pasto e si trasmettevano gli antichi saperi.

Fuoco che sembra scegliere i suoi adepti, che ne rivendicano perpetua custodia con liturgia che necessita di precauzioni nell’accensione e nello spegnimento, sempre effettuato con cautela per non «interrompere il filo di vita che a quel simbolo si annette» scriveva Lombardi Satriani. Fa così zia Enza che non lascia a nessun’altro il grato compito di allumare, unire e separare i ciocchi e che il due novembre, insieme alla sorella Maria, aprirà nella sua casa la nuova stagione del fuoco.

Perché proprio il 2 novembre? Perché comincia il freddo, mi ha risposto, e mettiamo a cuocere una pignata di fagioli. Ma sappiamo anche che il camino, o meglio u focularu, è la dimora privilegiata delle anime dei defunti e che nella dinamicità vivente dei suoi bagliori cangianti possiamo riportarli tra noi nel ricordo, mentre lasciamo correre i pensieri e ringraziamo, come fece Francesco giullare di Dio: Laudato si', mi' Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte, et ello è bello et iocundo et robustoso et forte.