Il professore Nicola Siciliani de Cumis (già ordinario di Pedagogia generale alla “Sapienza” di Roma e presidente dell’Associazione internazionale MaKarenko), dopo aver letto il libro della giornalista Chiara Fera edito da Rubbettino (“il libro invisibile di Pietro Citati - Racconto di un’analisi”), dice che adesso finalmente quel libro su Dostoevskij è visibile. Lo abbiamo intervistato.
Da dove incominciamo professore?

“Inizierei con una citazione. Questa: “L’impresa letteraria era di questo genere. Si pubblica in Russia una quantità di giornali della capitale e della provincia e d’altre riviste, e vi si dà notizia giorno per giorno d’una quantità di avvenimenti. L’anno passa, i giornali da per tutto si ripongono negli armadi, o si sporcano, si stracciano, se ne fanno involti o cartocci. Molti fatti pubblicati fanno impressione e restano nella memoria, ma poi con gli anni si dimenticano. Molte persone vorrebbero poi informarsi, ma quale fatica sarebbe cercare in quel mare di fogli, spesso senza conoscere né il giorno, né il luogo, e nemmeno l’anno dell’avvenimento? Mentre, se si raccogliessero tutti questi fatti d’un intero anno in un libro, secondo un certo disegno ed un certo criterio, con titoli, indicazioni, con la divisione per mesi e giorni, una simile fusione in un tutto intero potrebbe delineare tutta la caratteristica della vita russa d’un intero anno, nonostante che di fatti se ne pubblichi una parte straordinariamente piccola in confronto a tutti quelli che sono accaduti”.
Sta citando da “I demòni” di Dostoevskij se non sbaglio…
“Esattamente Lizaveta Nikolaevna, in un noto luogo del romanzo I demòni di Fëdor Dostoevskij. E la citazione, quasi un esergo in epigrafe, mi è riaffiorata alla memoria nel leggere Il libro invisibile di Pietro Citati. Racconto di un’analisi (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2018). Mi soffermo quindi anzitutto a ragionare sull’incipit del penultimo capitolo intitolato Gli anni dei Demòni, là dove Fera sostiene che sia I demòni sia Delitto e castigo “sono l’elaborazione narrativa di una cronaca giornalistica” (p. 87). E Pietro Citati? Scorrendo le pagine del “loro” Libro invisibile, mi avvedo che, a parte la bibliografia, ad occupare il campo delle note a piè di pagina e delle fonti sono quasi del tutto interventi giornalistici di o su Citati usciti dal 1973 al 2018 sul “Corriere della sera” e su “la Repubblica”. Due titoli, gli ultimi in elenco, mi risultano specialmente rivelativi: uno di Chiara Fera, Il libro invisibile di Piero Citati, da “L’intellettuale dissidente”, del 3 dicembre 1917; l’altro, un articolo con intervista di Paolo Mauri, Pietro Citati: ho sempre cercato il libro invisibile che è in fondo a ogni grande libro, in “la Repubblica”, 30 settembre 2005”.
Vuole spiegare meglio?
“Il primo, è una sorta di annuncio aggiornato dello stato dell’arte sul “libro segreto”; il secondo, quasi una premonizione e un’anticipazione della genesi dell’attuale risultato editoriale, soggettivamente e oggettivamente predisposto dagli svisceramenti, nutrimenti e ruminazioni dei grandi libri di Omero, Apuleio, Dante, Cervantes, Shakespeare, Goethe, Stevenson, Conrad, Manzoni, Gogol’, Dostoevskij, Poe, Tolstoj, Dickens, Balzac, Austen, Proust, Musil, Kafka, Mann, Woolf, Gadda, Nabokov, Calvino. Ma prima, sul piano della preparazione tecnica della storia e critica del testo, la lezione di Giorgio Pasquali alla Normale di Pisa; e dopo l’altrettanto indispensabile supporto della critica militante dei “giornalisti” Emilio Cecchi e Geno Pampaloni… Sennonché, la ricerca di quel “segreto” è stato ora reso possibile anche mediante il valore aggiunto del piacere della ricerca e del racconto dell’analisi di una giovane giornalista-scrittrice come Chiara Fera, che proprio del magistero del critico, giornalista e narratore Pietro Citati, prova a restituire a suo modo i frutti della lezione citatiana stessa. Nella sue peculiari ibridazioni e configurazioni proprie e nuove. Di modo che è intanto specialmente grande l’arte del Dostoevskij che in Il libro invisibile di Pietro Citati si sposa con la maestria del critico Citati, in quanto, quella stessa arte, viene rimessa puntualmente e rischiosamente in gioco dalla perizia di Fera esercitata sull’opera di Citati, così da esporsi quindi alle possibili e non prevedibili ripercussioni critiche nella testa dei lettori dell’odierno Libro invisibile...”
Quanto a I demòni…

“Beh, essi risultano un combinato culturale “esplosivo” ̶ come direbbe Lotman ̶ , nell’ambito della sua (dostoevkiana) “semiosfera” (mediata da Bachtin). Spiega d’altra parte Fera, dialogando con Citati virtuale autore ed eroe di Il libro invisibile (a p. 87): “I Demòni, come Delitto e Castigo, sono l’elaborazione narrativa di una realtà sviscerata, indagata e battuta a macchina sui giornali. Quella di Dostoevskij è una vera e radicata passione per la carta stampata: ne legge tre al giorno, ‘fino all’ultima riga, frugando tra le notizie politiche, la cronaca nera e i resoconti giudiziari’. Passione ma anche dono: quello di ‘scorgere tra avvenimenti in apparenza banali il senso stesso della realtà’. Immaginando, romanzando, costruendo sconfinati mondi narrativi; senza mai distogliere la mente dall’irreparabile crudezza di un vero delitto. Avvenne quando uno studente uccise una vecchia usuraia, ed è ciò che accade ora, quando, leggendo sulla ‘Gazzetta di Mosca’ dell’uccisione di un giovane, reo di voler abbandonare la cellula terroristica capeggiata da un allievo di Bakunin, Sergej Necaev, Dostoevskij riconosce ‘il viso del criminale, i suoi sentimenti, i suoi gesti, le sue parole, la sua condizione […] Quando lesse la notizia del delitto vide Necaev: lo comprese come solo oggi gli storici lo comprendono; e lo trasformò in Pëtr Stepanovič Verchovenskij, il suo alter ego nei Demòni”.
Vuole soffermarsi sul testo di Pietro Citati e sul ruolo dei quotidiani?
“Un testo, questo di Citati, forse da sceneggiare per il teatro e magari da riprendere in un film. Un ragionamento-vademecum da fare uscire dalla prigione dorata della letteratura dei letterati “puri” e immaginare al posto di un indomito Dostoevkij incatenato come Prometeo alla roccia e tormentato dagli artigli e dal becco della sua insaziabile aquila. Di più, un punto d’arrivo e di ripartenza, storico, metodologico, ma anche epistemologico e politico-educativo di Fera, che costruisce intanto l’intero suo libro come una sorta di work in progress nella propria chiave storiografico-genetica, etico-critica e narrativo-emerografica. Per rendersene conto, basta quindi avere presenti, per l’appunto sulla falsariga dell’esemplare Citati, la professione di giornalista dell’autrice che si riflette nell’istantanea sulla p. 5 del libro; il disvelamento riassuntivo e prospettico delle Fonti e della Bibliografia (pp. 97-102); gli innumerevoli riferimenti diretti o indiretti ai giornali; la quotidianità “di” Citati (e della stessa Fera); alle note a piè di pagina; la copertina e la quarta di copertina del Libro invisibile, che evocando a più riprese e in un’infinità di modi diversi il Dostoevskij dei giornali, pare invitare all’ascolto di una grande conchiglia custode del rumore delle rotative e dell’odore dei piombi delle tipografie Otto-Novecento…”
Che tipo di giornalismo a suo avviso è quello di Pietro Citati?

“Tutti i singoli capitoli, da un siffatto punto di vista, danno una qualche originale misura di un giornalismo culturale non “accademico” in senso angustamente retorico ed elitario. Un giornalismo, invece, altamente qualificato e intrinsecamente democratico, come strumento educativo comunitario e formativo di massa, organico ai libri e refrattario all’uso nevrotico, ipertecnologico ma deficiente di internet. E invece: un giornalismo specchio per interposto grande autore del nostro mondo localizzato e globalizzato; un giornalismo archivio della memoria storica, politica e sociale; un giornalismo didattico, scuola, università e laboratorio sociale di qualità culturali non effimere; un giornalismo diario collettivo; un giornalismo strumento di umanizzazione e di “ominazione” (nei modi teorizzati e/o praticati ai fini educativi dagli Enciclopedisti francesi del Settecento, quindi da Marx, Tolstoj, Labriola, Dewey, Montessori e montessoriani, Gramsci, Makarenko, Vygotskij, Freinet, Piaget, Rodari, Lodi ecc. ecc.). Un giornalismo alta posta in gioco. Che, per restare al Libro invisibile di Pietro Citati (e a quello che ne risulta ad opera di Chiara Fera), fin dalle prime pagine punta evidentemente ad alzare l’asticella, in linea con l’ “impresa letteraria” di dostoevskijana memoria nei Demòni, in quanto perspicuo racconto di un’analisi originalmente “altra”. Che vuol dire ricognizione formativa ed esemplare presa d’atto, scomposizione e ricomposizione dell’oggetto del desiderio estetico-intellettuale e morale, disamina critica particolarissima, dettagliata e nondimeno tendenzialmente unitaria, costitutiva e ricostituente, valutativa dei diversi ambiti di una singola opera nelle sue relazioni con l’insieme dell’Opus di uno scrittore. Di qui, da un lato, proprio al centro del Libo visibile-invisibile, alcune pagine rivelatrici su Musil e su Kafka (pp. 49-53) e le specifiche indicazioni di contenuto offerte dai titoli dei capitoli di cui consta l’opera: La critica letteraria, una rischiosa arte “di seconda mano” (pp. 9-26); su Il romanzo ottocentesco: “un sogno febbrile, confuso e sinistro” (pp. 27-38); su Incertezze liriche alla soglia della modernità (pp. 39-44); su Irrazionali armonie novecentesche (pp. 45-58); su Nel nuovo millennio; solitari capolavori e best seller da evitare (pp. 59-64); su Fëdor Dostoevskij: una narrazione critico-biografica (pp. 67-72); Gli anni di Delitto e castigo (pp. 73-79); Gli anni delle Memorie del sottosuolo (pp. 81-85); Gli anni dei Demòni (pp. 87-90)”
Risulta assai interessante nel libro anche il fenomeno delle connessioni. Spesso si è portati a concentrarci sui singoli aspetti e non sugli intrecci che sottendono alle trame e, in generale, a tutti gli eventi della nostra vita… Che ne pensa?
“Nell’ultimo capitolo del libro: La letteratura come arte delle connessioni (pp. 91-95)”, ciò che lei riferisce si coglie perfettamente. Un capitolo, quest’ultimo, che è dedicato all’Apuleio di Citati e alle Metamorfosi e alle “polimorfie” dell’uno e dell’altro; ma che nell’ulteriore prospettiva analitica di Chiara Fera si concentra sull’Apuleio “Signore delle innumerevoli connessioni”, e quindi ancora sui Demòni di Dostoevskij e sul “sogno” di Citati (e di Fera) di combinare poeticamente (forse anche poematicamente) le “gioiose” e “giocose” e nondimeno “dolenti e funeste condizioni esistenziali […] umane, troppo umane” del giornalismo culturale oggetto di racconto e di analisi (è la conclusione di Fera): “L’idea di Citati ispirata dallo scrittore latino, a me pare, absit iniura verbis, la più affascinante: ‘[…] parlare di pietre, di erbe, di astri, di demoni, invece che soltanto di anime, inoltrarsi agili come pesci nel regno della materia questo è un sogno che nessuno di noi dovrebbe dimenticare’”. E sarebbe certo un ottimo finale se, per tutto il libro, non aleggiasse un invisibile altro autore di libri invisibili, Socrate. Un finale che presuppone il “divino” e insieme “diabolico dettaglio” (come direbbe Aby Warburg) della latente presenza dell’anima di Socrate e delle molte anime del socratismo di Citati. E ciò, proprio nel senso delineato dall’“ardua indagine” che la giornalista-scrittrice Fera recepisce e svolge in proprio, sull’esempio della flessibile “attività maieutica” del versatilissimo Pietro Citati. Una ricerca che è, in prima istanza, “fatica fisica e mentale, ma anche gioco” e “il lavoro più divertente del mondo”. Il gioco di soprassuolo e di sottosuolo, di “pieni” e “vuoti” che il poliedrico Citati, ben oltre “la vertigine del vuoto” consiglia socraticamente “a tutti gli esseri umani” di riempire (p. 10). Commenta Fera: “Un lavoro per certi versi rischioso, ma un rischio che piace ai suoi numerosi lettori” (ibidem).
Considera questi ultimi riferimenti, dunque, il tema dei temi proposti dal libro ?
“Esatto, il tema dei temi del “libro invisibile”. Un tema autoeducativo che si fa educativo in Citati e autoeducativo oltre Citati, da giornalista culturale a giornalista culturale in Chiara Fera (cfr. le pp. 9 sgg. e passim) “La tentazione è sempre quella di andare lontano: in luoghi e tra culture che non conosco o conosco poco, e attorno a un libro leggere altre decine o centinaia di libri, formarmi una fragile competenza, e riaffiorare dopo qualche mese con un articolo dove il piacere di avere imparato coincide con il timore di dire sciocchezze. Perché la cultura di un recensore non ha radici molto profonde: è febbrile, improvvisata, lacunosa; minacciata dal tempo e dalla impazienza del redattore-capo, che vuole l’articolo per un giorno preciso. Sui temi che conosciamo profondamente, che abbiamo esplorato in ogni piega e ombra e recesso, si scrivono libri. Ma dove di perde allora, il frivolo e luminoso piacere dell’improvvisazioni”. In altri termini, se “la letteratura è il mondo della relatività” (p. 14), il Socrate scrittore inesistente e mentore influente sembra proprio il punto di riferimento giusto per intendere a pieno il significato del vuoto della “visione”. E la indubbia visibilità del valore relativo della “invisibilità” del libro che ne risulta. Anche se lì per lì non si vede”.