Friday, 13 December 2024

C’è una speciale Calabria nei piccoli racconti che troveranno spazio nella rubrica “Io sono qui!” che curerò a partire da questo numero. Mi presento: antropologa, scrittrice e fotografa, autrice e voce radiofonica, ho girato il mondo come fotoreporter ed ora vivo da qualche anno in un piccolo paese delle Serre Calabre, diventato il mio osservatorio privilegiato a Sud. Con “Io sono qui!” rivendico ironicamente una mia presenza umana e professionale sul territorio, che si declina in libri, reportage, conferenze-spettacolo, mostre e lavori audiovisivi e che ora prenderà la forma di piccoli racconti da snocciolare qui ogni mese.

Tutto incentrato su una realtà geografica e antropologica, che oltre ad essere il luogo delle mie origini, rappresenta per me una rampa di lancio per nuove mete e nuovi progetti culturali, nei quali persino le ferite aperte dallo spopolamento delle aree interne, possano diventare spazi liberi dove immaginare nuovi orizzonti. “Io sono qui!” sarà un distillato di esperienze, riflessioni e visioni con al centro l’interesse per il patrimonio immateriale, che insieme a quello naturalistico è il grande tesoro di questa regione. Patrimoni originari che devono poter esprimere il loro valore, amplificato dai nuovi strumenti del linguaggio contemporaneo, per includere e coinvolgere sempre più le nuove generazioni in una consapevolezza di appartenenza. Come antropologa e fotoreporter mi sono sempre occupata di popoli "lontani", sia che fossero gli sciamani dell'Amazzonia, le danzatrici del Benin o le sacerdotesse di Bahia. Ho abitato dieci anni in Brasile per le mie ricerche antropologiche, ho allestito decine di mostre fotografiche in Africa, a Parigi, Brasilia e Lisbona. E posso affermare che il mio amore per le espressioni culturali delle società più diverse, proviene direttamente da quel focularu di fronte al quale, quando avevo quindici anni, la zia Caterina mi cantava le sue canzoni in dialetto.

Dalla fiamma di quest'entroterra calabrese è stata proprio lei ad indicarmi la strada universale dell'antropologia. Dal greco νθρωπος, antropo "essere umano", e λόγος logos, "discorso, studio", l’antropologia si occupa dello studio dei comportamenti umani che attengono all’ampio concetto di cultura, inteso come patrimonio collettivo. Come chiarì l’antropologo Tylor nel 1871 “cultura è quell'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società.” Praticamente tutto. Tutto ciò che si può insegnare e tramandare, dunque, tradizioni, preparazioni alimentari, pratiche magico-religiose, musica, danza, saper fare artigiano, eccetera. Compito dell’antropologia è anche documentare tutto ciò che sentiamo sul punto di scomparsa, o che si sta trasformando in altro. E proprio dagli incontri estivi con l’anziana zia che si faceva portavoce del linguaggio poetico del secolo precedente, nasceva quell’impulso a fissare, a “catturare” i frammenti di un mondo che sembrava sul punto di svanire. Non sapevo che quell’attitudine potesse applicarsi a un ambito di studi, addirittura a un mestiere, ma con inconsapevole urgenza antropologica, mi impegnavo a documentare quel patrimonio vivo. Sia fotografando volti, sguardi e gesti del tempo della festa e del quotidiano, che scrivendo le parole antiche dell’eloquenza dialettale, quando sulla bocca della zia affioravano proverbi, racconti di corteggiamenti, di delitti e devozione, serenate, poesie e scongiuri.

Scoprivo l’interesse per la cultura di tradizione orale, quella che si tramanda nella prassi da una generazione all’altra, e la necessità di studiarla alla stregua dei saperi più accademici. Questo immenso patrimonio, di cui la nostra regione è ricchissima, viene detto intangible heritage, eredità immateriale. Proprio per la sua fragilità, perché può scomparire facilmente con l’interruzione della trasmissione del sapere, l’antropologo Alberto Cirese definì questi tesori “beni volatili”. Cioè beni che “volano via” con la scomparsa degli anziani che ne sono portatori e “vanno perduti per sempre se non vengono fissati su memorie durevoli”. Mettiamo quindi in sicurezza un patrimonio a rischio, documentandolo, e come faremo anche qui, raccontandolo. Allo stesso tempo, interrogandoci sul presente, sul mondo che cambia, sui nuovi scenari culturali, sulle inedite interazioni possibili tra il vecchio e il nuovo, anche tra vecchi e nuovi abitanti di questa terra. Terra che per evitare lo spopolamento ha bisogno di comunicazioni efficienti, di scuole e progetti didattici ad hoc per le aree interne, di una sanità affidabile, di lavoro.

Ma anche di una potente ripartenza culturale, perché ciò che è stato abbandonato, paesi dell’entroterra, centri storici, archeologia industriale, diventi spazio nuovo, stimolo, opportunità, occasione. Perché si operi una scelta consapevole tra ciò che del passato vogliamo lasciare indietro per sempre e quello che invece vogliamo valorizzare e che può aiutare la società contemporanea a vivere meglio. Lo stretto legame con la ciclicità della natura, ad esempio, il senso di comunità, la condivisione, l’ospitalità antica che fa aprire la porta di casa e invita a sacralizzare con il cibo l’incontro appena avvenuto con il forestiero.

Qualcosa di cui nelle grandi città si sente la mancanza. Oggi sta a noi scegliere cosa fare di questo patrimonio, se gettarlo per omologarci al modello che indica la via per il profitto ad ogni costo o se farne uno strumento di arricchimento e di crescita per tutti. Il passato, che può essere anche una trappola, una scusa, un banale, “come si stava meglio”, ci faccia invece da volano, lo diceva Eduardo De Filippo: usiamolo come fosse un’altalena, più indietro si va, più in alto si arriva. Anche per le schiere di giovani, come quelli che frequentano i miei corsi di antropologia all’Accademia di Reggio Calabria, a volte spaesati e in difficoltà, ma pure curiosi e appassionati, in cerca di motivazione per decidere di restare, di andare, o di tornare, comunque di stare veramente al mondo, o in Calabria, per “essere qui” con tutto quello che abbiamo a disposizione.

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