Come si sa, Walter Pedullà, oltre che uno dei massimi critici italiani ed europei, è calabrese, e dunque, come egli stesso scrive nel suo “Il mondo visto da sotto” di cui oggi conversiamo con lui, “hic Rhodus hic salta”: è del tutto inevitabile che con la letteratura meridionale lui “ci vada a sbattere dalla nascita”.
Peraltro, ricordando Savinio, quella “da sotto” è una prospettiva sicuramente migliore di quella che guarda dall’alto in basso...

Piace qui ricordare che il 12 novembre, a Roma, Teatro Argentina, al Nostro sarà consegnato il Premio Pagliarani alla carriera, e il 14 dicembre, a Bovalino, nell’ambito del Premio letterario "Mario La Cava", gli sarà attribuito il Premio Speciale “La melagrana” che nei primi due anni è andato a Raffaele La Capria e a Raffaele Nigro. In questo corposo libro-prospettiva che conta più di seicento pagine, Pedullà mette insieme scritti editi, inediti, saggi e articoli, che ha scritto dalla fine degli anni ’60 al 2015, e che sono stati pubblicati su Mondo nuovo, Avanti, Il Messaggero, L’Unità, Il Mattino, L’Illuminista, Il Caffè Illustrato. L’opera, edita da Rubettino, è divisa in cinque parti : mezzo secolo di avanguardie, mezzo secolo di realismi, la storia è la stessa diverso è il racconto, sulla narrativa calabrese del ‘900, finale con frantumi.
La prospettiva prescelta dall’illustre critico è quella “da sotto”, e allora, cominciamo la nostra conversazione proprio dal “finale”, poi variamente percorrendo le pagine del prezioso volume
“Nell’ultimo anno il Mezzogiorno non ha solo prodotto olive, uva, mandorle, fichi o fichi d’India. Nel 2007 sono stati particolarmente copiosi anche i libri di narrativa ... frutti squisiti... fluidi (come l’olio) ...nutrienti quanto i fichi con le mandorle... grappoli coloriti e succulenti di narratori ...inchiostro di buona gradazione ... ”: così lei scrive, e, del resto, lo ricorda anche la storiografia francese delle Annales, anche il cibo è cultura . . .

Mentre i fichi con le mandorle sono cultura, quelli ricoperti di cioccolato come li hanno inventati a Cosenza (almeno finché altra città non le contenderà i natali) sono Cultura, che è sempre mutamento della natura. La cultura procede così lentamente da sembrare poco più veloce delle radici del fico, invece la Cultura avanza anche quando pare andare indietro. La cultura è mimetica, naturalistica, strutturalmente fedele allo status quo, la Cultura è creatrice di qualcosa che si desidera o che esercita una spinta sulla base di bisogni urgenti. La cultura sta, la Cultura va : ovviamente se la sollecitiamo nel senso giusto. La solita minestra presocratica dell’Essere e del Divenire. In parole ancora più povere, c’è cultura e cultura, e c’è Cultura e Cultura. Diego Carpitella, un etnomusicologo calabrese che è stato il massimo rappresentante della disciplina, ha raccolto i canti popolari che stanno alla radice della cultura della nostra regione e ne ha fatto oggetto di una penetrante interpretazione che rende la musica dell’età contadina un fenomeno di alta Cultura. C’è la Cultura che interpreta la cultura passata e c’è la Cultura che inventa il futuro. Pirandello ha inventato il futuro che è tuttora il presente di tutti. Mangio i fichi, che sono nutrienti, e pensandoci sopra faccio Cultura, senza la quale una società non procede quando deve lasciarsi alle spalle saporiti problemi risolti e velenosi fallimenti. I fichi non bastano nemmeno se vengono accoppiati con le mandorle. Alla Cultura tocca sempre andare a verificare cosa si nasconde sotto la cioccolata: è lei che copre le imposture delle Culture date in pasto al popolo.
E su ciò lei indaga ...

Naturalmente indago sulla Cultura che ha generato la narrativa del Novecento, e che, a sua volta, è stata generata per impollinazione latente o palese della realtà sociale del secolo. Ci sono tante Culture e in tutte eccellono i meridionali, dal Diritto alla Scienza, dalla Filosofia alla Musica, ma la Cultura che quasi tutto contiene è la Letteratura. Più precisamente, indago nel romanzo, genere letterario con cui si esprime e comunica la totalità dei saperi. La Cultura fa politica col romanzo (D’Annunzio, Pirandello, Alvaro, Vittorini, Brancati, Silone, Domenico Rea, Sciascia,Tomasi di Lampedusa, D’Arrigo, Strati, Satta, Raffaele Nigro, e altri, in rappresentanza di tutte le regioni del Mezzogiorno), dal quale vediamo non solo la questione meridionale ma anche ogni altra questione del mondo. Lo abbiamo visto da emigranti che dal Sud sono arrivati al Nord in Europa, nelle Americhe e in Australia. Strati ha visto il mondo di tutte le prospettive, pure “da sopra”, dalla Svizzera. E dalla Germania, dove frequentava Pirandello, guardò il Sud Corrado Alvaro, autodefinitosi “europeo di Calabria”. Così noi si sia. Proviamoci. L’Europa è stata edificata anche da emigranti calabresi.
E quei “fichi d’India spinosi, da prendere con le molle”, che sapore hanno, oltre le spine ... ?

Potrei intonare un inno, o un panegirico, ai fichi d’India, ma, confesso, ho lanciato qualche invettiva a qualche spina collocata in zona inafferrabile della bocca. Non essendo un poeta, da critico mi limito a mangiarli con nostalgia delle pale ovali che segnavano i confini fra un podere e l’altro offrendo lo spettacolo multicolore della mia terra. Non si vive però di soli fichi. Dopo essersene nutriti, i meridionali non praticano più il philophari come facevamo noi che nel dopoguerra comprendemmo, diversamente dal ministro Tremonti, che con la Cultura si mangia. Si alzi un peana alla Cultura meridionalista che ci ha indicato la via d’uscita intellettuale dalla fame. Ce ne fosse una così? No, la Cultura deve essere diversa dalle precedenti se vuole meritarsi l’inno dei bisognosi di turno. Ora serve una nuova Cultura del Mezzogiorno. Più che nel passato, forse troppo protettivo: dica la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità, dica lo giuro. Insomma, inizi un processo libero da pregiudizi non solo contro i soliti noti ma pure contro gli ignoti colpevoli, cominciando dalle testimonianze della vittima: si portino in udienza i documenti sul reale stato delle cose meridionali. Poi comincerà una narrazione con cui convincere i cittadini a sentirsi coinvolti e a passare all’azione.
“A differenza dei grandi narratori meridionali degli anni ’30, ’50 e ’70, coi nuovi scrittori calabresi non è rinata la questione meridionale”, così lei scrive, chiedendosi che fine abbia fatto tale “questione”, e se sia ancora in vita. Gli stessi Abate, Criaco e Gangemi “raccontano la fase in cui la questione meridionale o non esiste, o è insolubile... il Sud che raccontano trasmette disperazione. Il referto è implacabile: abbiamo toccato il fondo”.

Morta una questione meridionale, è nata un’altra? Me lo auguro, ma i messaggi che ricevo dai narratori del Sud non invitano alla speranza. Abate e Gangemi raccontano un passato che è progredito tanto da avere un futuro : loro, per cominciare ce l’hanno. Valore artistico a parte, è tuttavia una più vistosa novità da prendere a esempio il presente narrato da Criaco: ha fatto conoscere il comportamento e le idee della giovane criminalità. E’ eccessivo ogni criminalizzazione globale del Sud, ma tale estremismo, se aggrava il problema, rende più urgente l’intervento riformatore della politica. Dal Sud è partito l’annuncio che la questione criminale sta rendendo disperata la questione sociale. La ferita al piede si è trasformata in cancrena nazionale ? Serve un intervento chirurgico di quelli che cambiano il passo ai cittadini. Qualcosa si muove nel Sud ? Dalla mia distanza non si vede, ma non significa che non c’è. Sono più bravi a capirlo gli scrittori che nel Sud vivono. Secondo Antonio Pizzuto, che era questore della polizia, cambiare il punto di vista è l’inizio di una nuova conoscenza. L’ispettore che è sempre un narratore constati anzitutto che siamo tutti più o meno colpevoli. In ogni modo, restando lontano non intendo fare la parte dell’innocente.
Dunque, la scrittura di Criaco è importante soprattutto come strumento di conoscenza della realtà sociale calabrese....
Considero Criaco il narratore più promettente se continua sulla strada sulla quale ha esordito. L’indignazione, il lamento e l’invettiva sono merci di cui sono pieni gli scaffali della biblioteca di massa. Nulla di più facile della condanna della mafia. In Criaco a me interessa poco il moralista che cerca prove per una sentenza liquidatoria. Di più mi sollecita culturalmente e politicamente la sua descrizione del fenomeno criminale. Voglio sapere cosa passa per la mente di un giovane mafioso e Criaco mi ha aiutato più delle motivazioni della pena da infliggere. Dobbiamo sapere di più sulla ‘ndrangheta, sulle ragioni della sua nascita nella parte più povera della regione più arretrata del Sud. Dopo Hiroshima, non c’è posto per la letteratura, diceva Sartre. Con l’avvento della ‘ndrangheta, tutto diventa secondario. La Calabria ha la sua bomba atomica per via di un’organizzazione criminale che esaspera le malefatte del neoliberismo finanziario. Non ce ne accorgiamo, ma a causa della ‘ndrangheta la nostra regione è il centro del mondo nella fase del capitalismo più avanzato e più reazionario.
Cosa vuole dire quando definisce la ‘ndrangheta “paradossale avanguardia calabrese”?
La genialità che caratterizza i calabresi nell’arte, nel diritto, nella scienza fisica e nella medicina ha indirizzato enormi risorse verso l’acquisizione della ricchezza che il capitalismo ha posto come obiettivo massimo della lotta per il potere. Chi poteva immaginare che nei paesi montagnosi o collinari della Calabria fosse in incubazione il più grande fenomeno di criminalità mondiale? C’è l’epoca dei generali e c’è l’epoca dei furieri, diceva Trotzschij. Le piccoli ‘ndrine sono diventate gigantesche holding che intimoriscono il mondo intero. La ‘ndrangheta è lo sviluppo di antiche cellule criminali ma è anche una colossale creazione di qualcosa che non esisteva. L’avanguardia non è rappresentazione del reale bensì creazione artificiale di ciò che si può ottenere con rischio mortale. “Nuova, impossibile e vera”, così Bontempelli definiva l’arte moderna, Paradossalmente la ‘ndrangheta è una finzione realizzata come meglio, cioè come peggio, non si poteva. E’ il capolavoro di una collettiva e prodigiosa mente criminale. Questa piovra sta soffocando ogni speranza di sfuggire al suo abbraccio fatale. I suoi tentacoli arrivano in ogni città del mondo. La ‘ndrangheta è diventata un mistero infinito da quando ha indossato l’abito della festa per entrare a Wall Street, alla City e alle Borse di Tokio e Shanghai. Potrebbe morire solo insieme al liberismo?
Per sfiatare l’angoscia, torniamo alla letteratura. Nella prefazione lei scrive che la critica letteraria serve a conoscere se stessi e il mondo, insomma, “aggiunge vita alla vita”, ciò significa che lei ha vissuto, e vive, un’infinità di vite, e di esperienze, una continua avventura, insomma ...

Che l’arte consiste nell’aggiungere vita alla vita lo diceva Antonio Pizzuto, il narratore palermitano che si è spinto più in là con la singola parola cercando il sentimento e la musica nascosti in ogni minuscolo dettaglio. Lui e Stefano D’Arrigo, il romanziere messinese che ha sconfinato con una miscela che ha arricchito l’italiano di tutti per informare il mondo che i “poveri” dialetti sono ricchi di verità universali, mi hanno aiutato a conoscere, attraverso le loro opere, sia la loro natura e cultura sia il mondo, a cominciare dalla Sicilia fino ad arrivare a me, in quanto uomo del loro tempo. Radicato nel Sud, ho vissuto tutte le vite del Novecento, dalla miseria fascista al benessere degli Anni Sessanta al rientro degli emigrati, dal neorealismo degli Anni 1945-56 al neosperimentalismo degli Anni 1956-60, dalla neoavanguardia degli Anni Sessanta al “nuovo realismo” degli Anni Settanta, il decennio in cui ebbero risonanza nazionale i cosiddetti “selvaggi”, una corrente d’avanguardia “povera” che ha come narratori solo dei calabresi. A loro accosterei il nome di Don Luca Aprea, il prete spretato che con Il previtocciolo fece scandalo raccontando la propria esistenza pagana, “al naturale”. E non dico il resto delle mie vite di professore dalle scuole medie all’Università, di giornalista e critico militante, di editore e di amministratore di istituzioni culturali nazionali. Sette vite? Forse di più, e sono ancora vivo e vegeto. Scrivo, e scrivo a favore degli scrittori meridionali che paradossalmente sono più letti al Nord che non al Sud, punto cardinale che oggi pare aver perso la bussola.
A proposito di Stefano D’Arrigo di cui lei è stato grande amico, e del suo poderoso Horcynus Horca, Vittorini era del parere che non andasse bene mischiare i dialetti meridionali all’italiano: sapeva di “reazionario”. Giudizio, questo, piuttosto sconcertante, anche in considerazione dell’alto livello che l’opera darrighiana mantiene sul piano linguistico....
Mentre uscivano i due capitoli del romanzo di Stefano D’Arrigo, era in atto un conflitto per distinguere ciò che è bello artisticamente e ciò che funziona culturalmente. Si avviava a trionfare la teoria sperimentalistica, secondo la quale poetica e poesia coincidono. A Vittorini, che ammirava così tanto Horcynus Horca da porlo, insieme a Calvino, all’attenzione dei lettori italiani, sembrò che il libro di D’Arrigo mescidando l’italiano col siciliano desse una risposta di retroguardia, quando invece l’innovazione è guidata da un impasto lessicale nord-sud, quello dei meridionali emigrati in Lombardia. D’Arrigo col suo dopoguerra postfascista era tematicamente meno attuale, ma era per struttura e scrittura più moderno di tutti i neosperimentalisti, sia dei nipotini dell’Ingegnere ( Testori, Pasolini, Arbasino) sia di Mastronardi, il romanziere di Vigevano che era il modello di Vittorini. Sui tempi brevi il cantore dei calzolai lombardi funzionava ed era anche bello, esilarante, lo è ancora; invece sui tempi lunghi, che sono quelli di un romanziere come D’Arrigo, che misura la storia non a decenni ma a secoli, il linguaggio conserva l’attualità di temi che non passano di moda.
E cioè ?
Il mare, la sessualità femminile, la condizione animale dell’uomo, la lingua con cui oggi parla la verità, la concretezza della fantasia e della magia popolare, il viaggio agli Inferi, l’Apocalisse... : sono temi che tornano attuali solo se li risuscita un linguaggio creato ex novo. D’Arrigo è l’ultimo grande inventore di narrativa del Novecento. Più di Pasolini, del quale è più bello, e non meno di Gadda, rispetto al quale rappresenta una svolta nella visione del mondo di chi sta socialmente sotto.
Grande amico di D’Arrigo è stato anche Rocco Familiari, scrittore e drammaturgo neo-espressionista, sulla cui scrittura lei tanto ha scritto, definendola, tra l’altro, “urto esplosivo di immagini e di sentimento.... un costeggiare il baratro..... situazioni al limite, ma ogni eccesso è sfida all’Assoluto”.... Cosa intende per “costeggiare il baratro” e “sfida all’Assoluto” ?

Figli del romanticismo esasperato di una regione sessualmente repressa dalla borghesia clericale, i personaggi di Familiari investono tutto nei loro amori, che egli conduce ad azioni e a temperature estreme. Sanno di essere in una condizione in cui ogni ulteriore passo è un salto nel buio. Meglio questo, però, che una mediocre esistenza borghese. Se oltre c’è nulla, meglio il Nulla o è persino preferibile l’Inferno a una vita priva di Senso, cioè di un programma massimo per la società e per l’esistenza. Il particolare tende a ricongiungersi all’Assoluto del quale oggi l’uomo è orfano. Familiari può anche dubitare che esista Dio, ma è certo che esiste il Diavolo: il narratore lo vede all’opera in un mondo che storicamente si è consegnato al Male più assurdo. Direbbe D’Arrigo che lo vede cogli “occhi della mente”: se una cosa non si vede, prima o poi la si vedrà. Narrativa fantastica non priva di realismo: la sua Calabria si tocca con mano.
Considerando quanto su Familiari ha scritto Krzysztof Zanussi , e cioè che “... sempre calmo e misurato, nella scrittura diventa passionale e irruente, e tuttavia attento a mantenere un difficile equilibrio...”, e pensando a romanzi come Il nodo di Tyrone – prima parte, lei crede che si possa associare al termine espressionista quello di neoclassico .... ?
Gli ossimori sono sempre eccitanti, ma definire uno scrittore “espressionista neoclassico” non l’ho ancora visto (non so se qualcuno ha usato la formula per Kafka, che sembra mettere in forma perfetta l’Assurdo). Naturalista espressionista è, per Contini, Gadda, che Pasolini variò lievemente quando con poca fantasia parlò di realismo espressionista. Calvino definì neoespressionisti i neorealisti che nel secondo dopoguerra si esprimevano con la semplicità rozza di personaggi spesso analfabeti. Neoclassico si può diventare dopo una fase d’avanguardia ma non fa coppia feconda con espressionista. Paradossalmente, Cardarelli, che poi fondò la rivista dei neoclassici aderenti alla “Ronda”, scrisse gli espressivistici Prologhi, forse la sua opera più intensa in prosa acuta, verticale e profonda, quando era un vociano. Oggi si inclina a considerare espressionista l’impressionismo della “Voce”, ma quando il poeta propose il ritorno all’ordine neoclassico odiava ogni linguaggio d’avanguardia. In quanto poi all’equilibrio, l’espressionista non è uno scrittore istintivo ed eterodiretto, non è il sismografo della psiche terremotata, è uno che dà forma al proprio informe, come Savinio prima e Debenedetti poi consigliarono ai narratori moderni: insomma l’espressionista è consapevole della parzialità della conoscenza che lo deforma. C’è la Bellezza della Bruttezza, è quella dell’ espressionismo, forma della deformazione dell’Inconscio..
E dunque, tornando a Familiari .... ?
Le formule sono sempre un po’ troppo riduttive, nella loro semplificazione; Familiari sta stretto nella definizione, ma fra gli ismi il più congeniale è l’espressionismo, più di quello lessicale, per intenderci, quello di più arbitraria e prepotente fantasia. Certamente non è uno scrittore neoclassico, un termine che fa pensare ad accanimento formale. A Familiari si addice che non trovi l’equilibrio a ogni costo. Stiamo parlando di terremoti psicologici e morali, e contro i terremoti non c’è rimedio. Un suo libro può restare deforme come è dalla nascita, ma, secondo Gadda, “ la deformazione è conoscenza”. La “malattia” di Familiari è incurabile dal neoclassico, che è la salute per i mali invisibili o oscuri del Novecento. Sarebbe la morte per la sua narrativa un Familiari “sano”.
... e del resto, c’è tutta una letteratura psicanalitica che insiste su ciò a proposito dei “creatori di arte”. Lei scrive, anche, che i narratori calabresi “sono dalla parte del mythos”, cosa significa ?
Storia lunga e io sono poco sintetico. Evidentemente pensavo ad alcuni calabresi e non ad altri, senza contare che ci sono quelli del primo Novecento e quelli del secondo. Se il Sud è o realista o barocco, i calabresi sono piuttosto realisti che non barocchi (o magari realisti barocchi come il secentesco Giambattista Basile). Significa priorità del fatto, dell’immaginazione, dell’avventura. A noi meridionali la vita reale non risparmia il peggiore romanzesco, da noi è di casa è nelle nostre case, insomma la nostra narrativa è parecchio autobiografica. Mi riferisco a certo Alvaro, a certo Strati, a certo La Cava, cui bastava girare per le strade e per la campagna di Bovalino per capire che l’immaginario è anche reale. Nonché universale, se è vero, come è vero, che i suoi concittadini non sono moralmente diversi dai contemporanei del greco Teofrasto e del cortigiano francese La Bruyère.
Lei ha detto che i narratori calabresi non sono dei formalisti, scrittori che cercano le cose a partire dalle parole.....
Infatti. Forse, prima dei “selvaggi” Guerrazzi e Bonazza, lo era solo Francesco Leonetti, il narratore calabro-emiliano che dalla pasoliniana “Officina” approdò alle avanguardie artistiche e politiche più radicali. Va tuttavia ricordato che, quando ancora nessuno aveva sentito parlare di espressionismo, Corrado Alvaro spiegò ai lettori della “Stampa” in cosa consiste un originale spettacolo d’avanguardia. Alvaro sapeva capire in anticipo dove va la realtà : un giorno vide che i tedeschi camminavano col passo del soldato e profetizzò l’arrivo di una nuova guerra mondiale. Se non è avanguardia, corrente di vita decennale, è pionierismo, categoria della preveggenza infinita, o detto più laicamente, delle previsioni della Cultura.
A proposito di espressionismo, lei lo definisce “ linguaggio con cui si sconfina nell’Altro”, in una sorta di non-luogo che appartiene anche ai contadini di Alvaro, Seminara, Strati, i quali però “ non lo sanno...” pur avendo “ il cervello complicato, inafferrabile”... . Cosa vuol dire ?
Mi riferivo, almeno credo, non ho sotto gli occhi il libro per verificare, mi riferivo al fatto che l’Altro ce l’hanno anche coloro che ignorano di averlo. Pure la cosa vista trasporta una visione, e a questo pensa Alvaro quando fissa per il narratore il territorio che sta “oltre la realtà”. Lo si può fare con la fantasia e tutti sappiamo che egli eccelleva anche nella letteratura fantastica, con cui si evita la fedele ma inerte rappresentazione della realtà di superficie. Il “mondo sommerso” non è una formula tanto semplice quanto pare. Propone una narrativa di sommozzatori con la quale si rivela incessantemente un segreto attraverso l’invasione dell’Altro, il territorio da cui partono impulsi irresistibili ma invisibili.
Sto pensando a Melusina...
Ecco, sì. Melusina, il personaggio muto che è anche il più eloquente nel denunciare la condizione della donna meridionale. Melusina è una ragazza che più semplice non potrebbe essere e tuttavia una forte attrazione sentimentale e sensuale scatena in lei un terremoto che sconvolge i rapporti familiari (odio per il padre e il nonno che la tengono stretta come due carabinieri), sociali (rancore verso il padrone che l’ha fatta trascinare dinanzi al pittore come una giovenca al macello), morali e religiosi (scapperebbe lontano dalla famiglia con il bel pittore che somiglia a Gesù). L’inconscio le deforma il volto spingendola a un moto del labbro che così sembra lanciare un “bacio cattivo”. Melusina non lo sa ma quel bacio che deturpa la sua impareggiabile bellezza è l’urlo soffocato di quella prigioniera dei maschi più maschilisti che è sempre stata la donna calabrese.
Lei scrive che “ nel Sud ci sono psicologie contorte quanto i pirandellismi ” : si riferisce ai personaggi della letteratura meridionale, oppure alle persone reali ? E come mai, qui “sotto”, c’è questa peculiarità, letteraria o esistenziale che sia ? Non sarà che la struttura patriarcale, con ciò che essa comporta, ha fatto implodere la vita interiore, generando percorsi psichici di tipo escheriano ...?
La domanda si dà da sola la risposta più plausibile. Io naturalmente parlo più di personaggi fittizi che non reali. Con la finzione letteraria i calabresi non rappresentano solo se stessi ma anche coloro che vi si riconoscono: Campanella e Alvaro sono, come dire?, un patrimonio dell’umanità. Le psicologie lineari sono banali e forse non esistono da nessuna parte. Meglio quelle contorte: così aggrovigliate raccontano una vicenda dove s’è persa la sintonia dell’individuo con la società, ma forse si è solo creduto che ci fosse, insomma la modernità non è tempo perso per la verità. Non c’è più con la forza di prima il movente economico che indica il colpevole da condannare. Sono saltati tutti i criteri su cui si reggeva la civiltà contadina. La transizione sta durando troppo, e circolano pirandellismi che altrove si sono risolti con la fine della dittatura dei padri. Le contorsioni psicologiche dipendono forse dal fatto che padri e nonni non possono permettersi di sparire dalla famiglia. Questi protettori dell’avvenire dei nipoti sono pure dei carcerieri, che si garantiscono con la pensione una più affettuosa convivenza. Più contorto e pirandelliano di così, può essere il mondo visto da sotto? Comunque da sotto si vede tutto il mondo, che sta meglio perché si è dato una dritta permettendo a giovani e donne una maggiore libertà di pensare, di agire e di dire.
A proposito di emigrazione, le donne di cui scrive Alvaro, tutte, remissive o ribelli che siano, “consigliano ai loro figli di cercare fortuna fuori della Calabria”. Questo, accade anche oggi nella realtà quotidiana, e il Sud, che produce grandi ingegni in tutti i campi, sembra essere destinato a “rimanere palude che cede ai terreni più fertili i propri tesori “. Il giudizio che lei esprime è tranchant : “le istituzioni complici delle corruzioni sono diventate la causa prima della crisi da cui è unificato l’intero paese” ...
Mafie, evasione fiscale e corruzione sono i tre mali nazionali che le istituzioni delegate non riescono a debellare, anche perché contagiate dalle mafie di pertinenza e d’appartenenza. Le mafie hanno conquistato il Nord, che essendo ricco è il massimo evasore, e la criminalità organizzata si è modellata sulle leggi di mercato del neoliberismo, trionfante dagli USA alla Cina. Le mafie e il capitalismo si sono troppo gonfiati, ma non basteranno le punture di spillo della narrativa politicamente impegnata a farli scoppiare. I giovani e le donne domani potrebbero non sapere dove scappare. La disoccupazione è destinata ad aumentare, e il prossimo datore di lavoro potrebbe essere un robot manovrato dalla mafia e dal neocapitalismo finanziario.
... questione invasiva, metastatica, per cui il dente dolente è inevitabilmente battuto dalla lingua del critico militante, che ha definito Gomorra “il più poderoso gesto politico compiuto oggi in Italia da un uomo solo”...
Inutile domandarsi se si tratta di un romanzo o di un documento. Gomorra ha fatto capire che oggi la letteratura sopravvive solo se veicola informazione originale e reazione intelligente capaci di bucare lo schermo e i cervelli. Se il mondo, da qualunque punto lo si osservi, mostra uno spettacolo di violenza, disperazione e dissennatezza, tocca descriverlo in modo che ci faccia orrore. Con la sua opera, Saviano ci ha insegnato che o siamo già tutti come i suoi napoletani, o lo saremo presto. L’Apocalisse è già cominciata. I suoi cavalli scalpitano ai confini, unico freno Magistratura, Polizia, Carabinieri. Sono loro l’ultimo baluardo a difesa della maggioranza silenziosa di onesti, che poi sono pure i complici coatti della devastazione generale. Mi fermo. Non faccio l’ apocalittico.
A proposito di scrittori che scrivono di malavita organizzata, di Camilleri lei scrive che la sua narrazione “tiene a bada i nervi”, contrariamente al Gadda “giallo” ....
Camilleri è un eccellente narratore, ad avercene di romanzieri così godibili per l’immaginazione e accessibili per la scrittura. E’ un bravissimo diluitore dei linguaggi innovativi e dell’Ideologia Rivoluzionaria Suprema del Novecento, invece Gadda è un creatore di lingua. Camilleri è tutto chiaro, Gadda è complesso e ambiguo come la narrativa che somma punti di vista per comprendere quel fenomeno criminale che sta diventando l’umanità; Camilleri risponde con ogni frase, Gadda interroga all’infinito, Camilleri trova sempre il colpevole che il lettore vorrebbe condannare, Gadda si domanda se l’omicida è colpevole in una società in cui vanno in carcere solo i poveri, sono loro le vere vittime del nostro sistema economico, questo assassino. E qui convergono le idee del comunista che aspira al ribaltamento sociale e del liberale che teme i soprusi di ogni potere. .
Tra giudizio di pubblico e giudizio di critica in genere c’è un divario non da poco. A sua memoria, c’è stato un periodo in cui la distanza ha iniziato a essere particolarmente vistosa ?
Nell’Ottocento Anton Giulio Barrili vendeva più copie dei suoi romanzi di consumo che non coi propri capolavori d’arte Giovanni Verga, il narratore che usava la lingua dei suoi pescatori e contadini per guardare il mondo da una prospettiva inferiore, che è il suo modo di vedere il mondo da sotto. Negli Anni Venti del Novecento Guido da Verona, Pitigrilli e Mario Mariani avevano più lettori di Svevo, Gadda, Bontempelli, Palazzeschi e Savinio. La differenza con l’attuale fase di separazione tra critica e pubblico? Una volta i romanzieri di intrattenimento, che fra l’altro spesso scrivevano in un ottimo italiano - sicuramente Guido da Verona e Pitigrilli - quello appresa alla scuola di retorica di D’Annunzio, sapevano di giocare in un campionato diverso da quello in cui si gareggiava per il titolo mondiale di Letteratura. Ora invece sono convinti di avere le carte in regola per competere con gli scrittori che fanno della Letteratura il territorio dove un nuovo linguaggio scopre una differente visione del mondo. I narratori di consumo fanno la cultura che scende giù come l’acqua, i narratori di ricerca fanno la Cultura che sale faticosamente al cervello per migliorare la vista o avvertire che sugli occhi è calata la cataratta che, secondo Proust, blocca la visione di quanto di nuovo è maturato in una società che cambia fisionomia con la velocità di chi precipita..
Nella quarta parte del suo libro, la narrativa calabrese del ‘900, lei scrive “alcuni dei maggiori scrittori scrivono male”, ed esclude da questo giudizio Alvaro, Seminara, La Cava, e solo in parte Strati , ma per la capacità narrativa, non per il linguaggio. E Abate, Gangemi...?

E’ stato Pirandello a distinguere gli “scrittori di parole” dagli “scrittori di cose”. Lui si poneva tra questi e collocava D’Annunzio fra quelli. Si dà il caso che i due maggiori romanzieri della modernità, cioè Svevo e Pirandello, “scrivano male”, cioè usano la lingua necessaria a comunicare quanto di originale ma spettinato hanno pensato. Dalla cosa discende la parola, direbbe un pescatore di D’Arrigo e con lui ogni narratore che all’esistenza oggettiva della realtà crede anche nella fase di transizione tra il vecchio e il nuovo. Per contestare la lingua aurea e orecchiabile degli Arcadi, gli illuministi lombardi del “Caffè” infilavano nella loro prosa frasi grezze e persino sgrammaticate. Ebbene, Strati scrive un migliore italiano nella maturità che non agli esordi, quando “scrive male” perché la realtà è fatta male e non sarà lui a imbellettarla. Barocca non è la mia narrativa, barocca è la vita, diceva Gadda, scrittore di parole che cercava le cose con cui delinque ogni momento storico. Per tornare alla domanda, Seminara negli Anni Cinquanta scriveva nel più pretto e congruo italiano, ma il suo primo romanzo, Le baracche, è un’opera intenzionalmente e provocatoriamente umile, rozza, povera che va a sbattere contro la lingua illustre dei novecentisti e dei dannunziani; per averlo inventato e scritto nel 1934, Seminara è un precursore in forte anticipo del neorealismo, un pioniere di Cultura, e per avere scritto Il vento nell’uliveto e Disgrazia in casa Amato è un romanziere che ha dato smalto e consistenza alla narrativa sociale e politica del Novecento. In quanto ad Abate e a Gangemi, il primo nutre la propria lingua con l’arbresch delle sue origini e con lui l’espressionismo torna a proporsi come modello linguistico per le narrazioni di confine. L’italiano di Gangemi ha geometria profonda, scoppiettante elettricità lessicale e possente architettura storica. Questo ingegnere scrive meglio di molti calligrafi perché le sue parole sono toste come rocce.
In genere, come considera l’italiano degli scrittori calabresi?
In media scrivevano e scrivono bene, per esempio Raul Maria De Angelis, Leonida Repaci, Perri, Saverio Montalto, Altomonte, Occhiato, Lazzaro, Bonazza, Guerrazzi, Leonetti, Adele Cambria, Familiari, nonché Calabrò e Serrao, che sono anzitutto poeti. Strati temendo di non scrivere a regola d’arte andò a Firenze per sciacquare i panni in Arno come un umile Manzoni del Sud. Invece la lingua sorniona e ammiccante di Mario La Cava piacque subito ai direttori del “Mondo”, al fiorentino Bilenchi, nonché a Debenedetti e Sciascia, due prosatori formatisi sulla rivista dei neoclassici “La Ronda”, la maggiore scuola italiana di bella scrittura.
Il “limite” di Strati, il linguaggio, in qualche modo è anche del suo pregio... : “ Strati ha pensato in calabrese quale fatica è trovare la perfetta lingua nazionale, e per fortuna non la trova” : è il fascino della “ costruzione in pietra priva di intonaco” ...?
La muratura di Noi lazzaroni e del Selvaggio di Santa Venere ha l’intonaco che mancava a una narrativa dove i personaggi abitavano nelle petrose e scarne abitazioni del periodo fascista. Il lirico di Tibi e Tascia è diventato un giudice istruttore che apre processi in cui colpevoli sono pure i calabresi che hanno venduto l’anima protestataria e rivoluzionaria per un piatto di lenticchie. Non era questo l’avvenire desiderato da contadini e artigiani del secondo dopoguerra. Chi avverte una mia preferenza per il primo Strati non sbaglia, ma la febbre morale e politica del secondo trasmette un’energia negativa che non è più incanalabile in elegia, linguaggio di chi si piange addosso. Lo Strati disperato e furioso va ben oltre il neorealismo che lo retrodata. E l’intonaco ha la finezza della scrittura classica. Strati è uno dei pochi narratori calabresi assurti per talento e tenacia a “classico moderno”.
Lei scrive che Strati “ conosce l’origine dei mali e sa pure che sono incurabili... orchestra romanze strazianti o furiose che denunciano la frustrazione di chi ha sperato nei miracolo della storia .... i personaggi ... da quando non coltivano l’utopia, pensano ... persino alla morte”.... Oggi, l’utopia, la visionarietà, può essere considerata un rimedio alla “morte” dell’Umano, oppure comporta il rischio di un tonfo clamoroso ?
Quando i grandi progetti culturali falliscono come è successo al meridionalismo e ai socialismi, chi non si accontenta della realtà tangibile e possibile guarda verso l’orizzonte, dove occhieggia il desiderio più elastico. Meglio l’utopia che non la rassegnazione alla situazione sociale e morale di oggi. E tuttavia per evitare il tonfo clamoroso quale sarebbe un nuovo fascismo, preferisco immaginare una battaglia radicale e graduale verso una condizione che potrebbe anche peggiorare. Strati cerca dove ha fallito la storia e lancia invettive contro il cielo. Finché non troviamo un’alternativa, io insisterei con il socialismo che, attirando verso il massimo obiettivo, ottiene lungo la strada che conduce all’uguaglianza globale il risultato più avanzato possibile. Secondo Campanella, i calabresi aspirano sempre all’Assoluto. Questo non ha gradi ma ha gradini per far salire a livelli più elevati. Sia guidato dalla ragione, in una fase preoscurantista come l’attuale. E se si rendesse necessario ricominciare dall’inizio della modernità, rivolgiamoci all’Illuminismo. Alla Cultura tocca fare luce dove si sta allungando il buio. Io quando vedo un tramonto sono sicuro che dopo la notte verrà di nuovo il giorno. A me piacciono i narratori solari come Savinio, l’ateniese che discendeva da avi siciliani e che viaggiando per la Calabria capì in un mese più di quanto altri scrittori del Sud capirono in una vita. E io continuo a guardare da dove sorgerà il Sole dell’Avvenire. In questo io sono cocciuto come un calabrese.
I calabresi hanno sempre letto poco, ”fino agli anni ’50 erano pochissimi i calabresi che sapevano leggere ... e passa la voglia di leggere a chi fatica tanto per campare...“ , però, lei stesso osserva che nel Veneto, regione che nel dopoguerra aveva una condizione simile a quella calabrese, si legge più che in tutto il Sud. E chi non legge non ha “la spinta delle idee”
Oggi è irrinunciabile il ricorso alle idee. Ovviamente servono nuove idee, quelle vecchie sono troppo consumate, sono scontate e banali. Uno dei buoni motivi per cui non si legge potrebbe essere questo: se la letteratura trasmette messaggi logori, non esistono ragioni perché sia letta. Oppure si legge quella tradizionale e scolastica che non aggiunge nulla al risaputo. Sia data libertà a chi legge per divertimento ma così si devia dalla strada alla fine della quale c’è la scoperta di un segreto della nostra vita. Ci divertiamo tanto perché non ci vogliamo pensare? Così non troveremo mai le idee capaci di guidarci alla via d’uscita che sempre esiste. E io, caparbio come un calabrese, ripeto il ritornello: se non riuscite a cambiare la realtà, cambiate punto di vista, insomma l’immagine sia vera. Così sia la letteratura che fa Cultura. Una poderosa e fantastica nuova Cultura è sempre madre di realtà materiale. Genera esigenze che sono violente come la fame.
Il neo-ministro per il Sud, pare si tratti di un meridionalista, dopo “Proposte per il riscatto di una generazione sotto sequestro", ha pubblicato «La sinistra e la scintilla. Idee per un riscatto» : Provenzano insiste sul termine “riscatto”... . Ma, secondo lei, il Meridione deve “riscattarsi”, o cosa ...? Lei afferma che occorre “lottare per risalire”, il che “non significa andare al Nord. Per staccarsi dal fondo bisognerà puntare i piedi sul Sud” ....

Attualmente non abbonda la solidarietà di qualcuno verso un altro. L’uguaglianza è un mito che ha sempre meno cultori. Credo di più alla capacità del Sud di ottenere il massimo da se stesso per istinto di sopravvivenza. Ho vissuto sulla mia pelle due esperienze fondamentali del Mezzogiorno: l’uscita dal fascismo, ma avevo dodici anni, e la crisi del meridionalismo, che ha ispirato le battaglia per la terra. Dal fascismo uscimmo mettendoci a studiare furiosamente con la certezza che un impiego prima o poi l’avremmo trovato, e questo purtroppo oggi non succede. Poi lottammo per le riforme agrarie ma arrivarono quando tramontava il mondo dei campi. Hanno fatto molto i partiti di sinistra e i sindacati, ma alla fine il risultato più saldo arrivò con l’emigrazione, che oggi torna in forma di emigrazione intellettuale e giovanile verso il resto del mondo. Ma non si può dimenticare che diecimila emigranti sono niente al confronto con le centinaia di migliaia di giovani di cinquant’anni fa. Credo di più in un sagace intervento pubblico, purché stavolta sia gestito da un esercito di controllori incorruttibili. Confesso il disagio: mi blocco, o mi avvito, quando mi interrogano sul futuro. Come profeta sono cieco, a tentoni agitando l’aria non tocco con mano l’avvenire migliore che continuo a cercare. Per andare avanti faccio lo spiritoso e concludo che, se abbiamo toccato il fondo, o moriamo o risaliamo. Noi meridionali partiamo sempre dal fondo, dal sempre più profondo Sud. Visto da sotto, o dalla mia distanza, il Sud non pare poi così giù: più moralmente che economicamente. Ha virtù nascoste? Non tutto mi è chiaro a questo riguardo. Non faccio i conti in tasca a nessuno, ma segreti restano i conti correnti di meridionali che sono poveri solo per l’Agenzia delle Entrate.
Lei osserva che nei calabresi “ si registrano più scatti di nervi che non scoppi di riso ... i calabresi sono spaventati prima davanti al mondo, poi davanti alla vita. Almeno finché non diventano cinici e non tornano a essere fatalisti...., non hanno mai smesso di temere la realtà e l’esistenza”. Aggiunge, comunque, “ ricordatevi di quello che eravate quando i rapporti di forza tra i gruppi sociali erano esplicitamente più feroci. Grattate sotto questa civiltà e vedrete l’antica violenza con cui i ricchi offendono ed umiliano i poveri ... Sarà archeologia, ma se scavi, trovi reperti antropologici che non distingueresti da quelli del resto d’Europa” . E però, a parità di ... “reperti”, le differenze ci sono, e notevoli....
Forse è ancora vero quanto tuttora credo, avendolo scritto Baudelaire, Freud e Bergson, e cioè che il riso nasce quando finisce la paura di qualcosa o di qualcuno. Un po’ è vero e tuttavia un po’ lo credo anche io che i calabresi non ridono perché hanno paura. Si poteva ridere negli Anni Sessanta e Settanta, che rappresentano il ventennio socialmente più felice, ma oggi la situazione è di quelle in cui si fa sentire il panico. Il riso è un ottimo avvio per la dialettica, diceva Walter Benjamin, la comicità è comunque migliore della lagna, e tuttavia oggi conviene partire dalla paura del peggio. Nel Sud si sta sicuramente peggio che in tutto il resto dell’Europa. E siamo soltanto ridicoli se attribuiamo al Nord la colpa dei nostri mali. Saranno forse pure ingigantiti dal cannocchiale rovesciato con cui si guarda il Mezzogiorno, ma noi rovesceremmo la verità più oggettiva se non ammettessimo che tendiamo ad autoassolverci. L’Europa farebbe bene ad essere più calabrese per solidarietà e accoglienza, ma noi calabresi dobbiamo essere più europei. Corrado Alvaro ce l’ha fatta nel modo migliore, ora tocca a noi. Ci sarà da scarpinare in salita. L’abbiamo sempre fatto, ma stavolta sarà più dura.
Perché la Calabria esca dall’immobilismo, “prima tocca portar la Giustizia, e quando sarà tornata la legalità, si rimetterà in cammino il Divenire” : che aria tira... ?
Ho detto per una vita che l’obiettivo primario è la Giustizia Sociale e non rinuncio all’idea. Quando divento più realista, tolgo l’attributo e mi tengo la Giustizia, quella gestita da magistrati coraggiosi, poliziotti e carabinieri che rischiano quotidianamente la pelle per combattere i mafiosi di ogni clan o scuola o partito. Sarà sempre difficile definire e praticare la legalità per cui la legge è uguale per tutti, ma per ora limitiamoci a far rispettare la legge che sta alla base della democrazia. Fatta Giustizia, incarcerati i mafiosi che insidiano il futuro della società e delle istituzioni politiche e culturali, riprendiamo la battaglia per una maggiore giustizia sociale. Non basteranno i beni sequestrati, bisognerà produrre altri. Al lavoro, calabresi!