Siamo entrati in una dimensione surreale, animata da uno spirito raro, di quelli incantati che ti riconciliano con il mondo. Anche se si era in tanti e il borgo ci avvolgeva e poi ci stringeva tra i suoi vicoli. Quell’inaspettato respiro multietnico, multiculturale, aggregativo, che si anelava tra le case fantasma quella notte, aveva già dato il senso al nostro viaggio. Non eravamo però lì per osservare i volti della gente, anche se avevamo gli occhi pieni di domande su quelle vite, lontane da noi, che per una notte si stavano sfiorando. Eravamo lì per i film in concorso.
Per raccontare della settima edizione del lavoro straordinario che un gruppo di giovani di talento porta avanti con ambizione, abbiamo incontrato il deus ex machina del Pentedattilo Film Festival, International short film festival, il direttore creativo Emanuele Milasi. Con lui abbiamo tratto una sintesi dell’evento nella notte della sua conclusione.
Possiamo definire il Pentedattilo Film Festival come il risultato di un impegno corale tra isole creative che hanno messo in campo le proprie competenze per valorizzare un territorio e farlo vivere attraverso il linguaggio della settima arte, il cinema, nella sua declinazione dei cortometraggi. Quale è il valore aggiunto di questa edizione?
“Siamo riusciti a fare rinascere il borgo attraverso l’arte. Quella che sembrava un’utopia si è invece realizzata, il borgo non è più fantasma. Anche grazie al workshop del regista Guido Chiesa, i partecipanti dovranno realizzare un corto nel borgo di Pentidattilo. Questo vuol dire che il festival vivrà tutto l’anno e che non è solo visione, ma condivisione e scambio di esperienza. Sono molto felice soprattutto per il pubblico, c’è stata un’alta affluenza di gente e non solo diaddetti ai lavori. Abbiamo avuto oltre mille corti in concorso, anche dalla Giordania, dal Sudan. Luoghi da cui non ti aspetti ci sia una produzione, non sappiamo neanche se esista una politica cinematografica. Molti registi sono anche venuti da molto lontano. Questo dimostra la forza del festival, del borgo, che ha lasciato un’impronta significativa anche a livello europeo. È stato un evento globale, che ha ospitato arte contemporanea, installazioni, fotografia”.
Avete riscontrato la stessa sensibilità e lo stesso entusiasmo anche da parte delle Istituzioni calabresi?
“Non esiste cultura senza investimento economico. I festival, soprattutto al Sud, hanno bisogno dell’apporto delle istituzioni. Quest’anno siamo rientrati in un bando regionale quindi abbiamo ottenuto il finanziamento della Regione Calabria, un importante contributo da parte della Provincia e del Comune di Melito Porto Salvo. Ciò significa le nostre istituzioni hanno compreso l’utilità di investire nella Calabria vera, quella che fa cultura, e che i festival possono davvero essere un trampolino di lancio per il territorio. Gli eventi non succhiano soldi, ma generano un grosso valoreaggiunto in termini di immagine. Gli enti pubblici non devono dare di più, ma il giusto. Devono continuare a guardare l’evento per quello che merita”.
È chiaro che il festival interpreta un ruolo culturale nel nostro territorio. Anima e valorizza il genius loci. Ma contiene in sé un proprio messaggio che intende rivolgere al cinema o attraverso il cinema?

interpreti de "L'Umanità Scalza".
“Il nostro messaggio è quello di Vittorio De Seta, cui è dedicata questa edizione: “Troppo spesso abbiamo dimenticato millenni di storia e cultura per cedere al progresso, pensando che fosse avanzamento, mentre era solo progresso, che è un’altra cosa”. Abbiamo scelto tra progresso e tradizione. Invece non sono necessariamente alternativi. Stiamo dimostrando che un borgo che vive di un’energia antica, primordiale, può rivivere attraverso le idee innovative dei giovani. Questa spinta energica deve convivere con la forza primordiale. Non dobbiamo rinunciare a ciò che è stato, né a ciò che sarà”.
Il festival è stato o può diventare una vetrina per giovani talenti calabresi?
“Si, abbiamo avuto autori calabresi in finale ed è cresciuta molto la produzione di cortometraggi a Reggio e in Calabria. I nostri talenti sono prevalentemente fuori, si sa. Vivono a Los Angeles o in varie parti d’Italia e in tanti sono venuti quest’anno al festival. Sembrava un meeting delle persone che abbiamo perduto. Ma che, se l’innovazione convivesse davvero con la tradizione, potrebbero tornare. Forse”.