Grazie per l’originale esperienza, mi ribadirono i parenti pieni d’ira per quella trovata del battesimo aspromontano.
Avevano ancora nello stomaco gli spasmi provocati dai tornanti, dalle buche, dai dirupi, dalle bestie padrone delle strade. Ma che ne sapevano loro della montagna? dei Bizantini? di San Leo? del santuario basiliano sperduto all’apice del promontorio?

E come potrebbero comprenderli, la montagna, i Bizantini, San Leo e il nostro piccolo santuario basiliano?
Delle notti trascorse ad attraversare i sentieri sterrati con una torcia e una bottiglia d’acqua, delle giornate affacciati dalle cime più alte, nebbiose, piovose, fredde, tu eri figlia. E a quei santi che comandano il mondo tra Bova, Africo, Roghudi e Polsi, e che fanno miracoli alle anime semplici, io ti dovevo votare.
È una piccola costruzione in pietra, il santuario di San Leo, quattro mura tenute assieme da una moderna cinta in acciaio, messa lì come unica imbarazzante opposizione al tempo: ha alle spalle l’Aposcipo, a destra l’Aposcipo, a sinistra l’Aposcipo, e dinnanzi al suo portone la strada che riporta alla montagna: una lingua di terra circondata dai dirupi. Fu costruita dai monaci basiliani, eredi della cultura bizantina, più di mille anni fa.
Il Santo reclamato da Africo e da Bova riunisce al santuario centinaia di fedeli che, ogni 5 maggio, si recano a piedi a venerarlo. Restano di lui, sull’Aspromonte orientale, le cappellette votive erette dai pastori; nei boschi di pino, i tronchi scavati dai monaci per raccogliere la resina: da essa si ricavava la pece tanto cara al Santo per sfamare i poveri; e, nelle fiumare, restano i luoghi di culto dove - si racconta - egli si recava a pregare.
Era figlio di Africo e di Bova, Leone Rosaniti, e i suoi resti furono divorati dai due popoli famelici, troppo bisognosi d’amore: «La rivalità tra le due comunità di credenti - afferma lo studioso Pasquale Faenza - rappresenta un percorso culturale e religioso intriso di storia e di fede, di miracoli e di lotta. L’esistenza di due statue di marmo, di due busti reliquiari, di due vare, di due festeggiamenti, il 5 maggio per i bovesi ed il 12 maggio per gli africesi, ne è la dimostrazione». «Le fonti storiche - prosegue - sono concordi nell’affermare che San Leo morì ad Africo, proprio nel monastero dell’Annunziata dove vennero inizialmente conservate le reliquie. Successivamente i cittadini di Bova le prelevarono per custodirle nella loro città, lasciando ad Africo solo un osso, forse appartenuto alla mano, che oggi è conservato all’interno del reliquiario argenteo nella chiesa di San Salvatore ad Africo nuovo.
Tale busto è del tutto analogo a quello presente a Bova, in esso sono conservate le ossa del cranio, i femori e le tibie. La chiesetta è stata costruita sui resti dell’antico monastero dell’Annunziata ed alcuni ipotizzano che si trattasse di una grangia dell’Abbazia di Santa Maria dei Tridetti, sita nel comune di Staiti». Dei suoi miracoli, invece, ne parla il giornalista Pietro Criaco, in un articolo di qualche anno fa «San Leo si recava in montagna, presso la località “Cozzi”, e mentre di giorno lavorava tra i “Picari”, di notte pregava immerso in un laghetto lungo il torrente che in suo onore gli africesi chiamarano “Fiumara di San Leo”. Tra questi compagni di lavoro, ispirato da Dio, compì il suo primo miracolo, trasformando l’odorosa resina, ricavata dai pini intagliati, in pane. Erano anni di grande carestia e di una peste mortale ma le preghiere e le penitenze del Santo salvarono il popolo.
In quegli anni i Saraceni assediarono Bova, alcuni soldati si spinsero a saccheggiare fino ad Africo, San Leo venne svegliato da un angelo, intervenne e vinse la guerra “cu la sua spada a li mani”: cioè col Vangelo.

Dopo aver dedicato tutta la vita a Dio e al servizio del prossimo volle morire tra i suoi confratelli, quando decise di ritornare al convento le forze lo stavano abbandonando, chiese aiuto ad un uomo che portava sulle spalle una bisaccia piena di “deda”. L’uomo lasciò il suo carico e lo prese sulle spalle, trasportandolo fino alle vicinanze del convento. Lo adagiò ai piedi di una grande quercia e, su richiesta di San Leo, si recò al convento per avvisare il Priore. Prima di andar via vide ricomparire la sua bisaccia, e comprese di aver servito un uomo di Dio».
Uomo di Dio, guardiano dei fiumi, soldato dell’eremo. Ma era solo San Leo quando aprimmo la porta della chiesetta, sarà stato novembre e fuori pioveva. Camminavamo da un po’ - quel giorno si risaliva dall’Aposcipo - e avevamo gli scarponi zuppi e le mani intorpidite dal freddo. E non fu certo l’istinto di preghiera, ma la necessità di un rifugio, a spingerci ad entrare.
San Leo se ne stava in silenzio; quando gli puntai la torcia al volto lo sorpresi a fissarci: aveva lo sguardo bonario e il corpo stretto in un pezzo di marmo tozzo e bianco. Eremita, custode dei luoghi, vivo in un mondo esanime.
San Leo, pensai, o forse dissi…
Sarà stato il dolore, che mi parve di averlo vicino; ché il dolore quando arriva è sempre inatteso, ed affina i sensi ed esaspera l’immaginazione, e se irrompe nei cuori per svezzarli è un tumulto di tuoni e fulmini e pioggia battente.
Ed era pioggia quella che avvolgeva il piazzale, lacrime che lavavano altre lacrime: stagliate contro il grigio del cielo di Samo le rocce disegnava il volto di Giove; le nuvole correvano lungo i sentieri che appartennero al brigante Galera, nascondendo con anacronistica lealtà i segreti del suo covo; il Serro, con la cappella votiva di Mingioia e il piccolo santuario, sostava sulle lingue dell’Aposcipo soffocato in un abbraccio di cielo e montagne. Pareva esso stesso una preghiera.
San Leo, dissi con più convinzione…
Rispose l’Aspromonte scosso dalla furia dell’improvviso temporale, e il vento fece urlare gli alberi dai campi di Bova fino ai pendii di Perdifiato. Non fuggimmo la pioggia, ci immergemmo in essa, lasciandola prendersi scarpe e vestiti, penetrare come acqua battesimale fin dentro le carni; risalimmo così il versante che corre parallelo ad Africo antica, arrampicandoci sui sentieri fangosi per tagliare il percorso, e il santuario restò alle nostre spalle mentre l’Aposcipo in festa strappava massi dai piedi invadenti della montagna, per levigarli, smussarli, piegarli al volere del fiume e addolcirne il profilo.
Dal bivio che scende a Campusa mancava ancora un chilometro all’ostello: lo percorsi a denti stretti gravata da un peso sempre più insopportabile e dal vento che spirava contrario.
Lasciai a lui le domande insolute, troppe.
Le paure che accorciano il respiro e si avvinghiano al cuore, mortali.
I ricordi immuni al tempo che fanno imprecare come ferite correnti, feroci.
Ad alta voce uscirono i lamenti, ma il loro suono si confuse col gemito della montagna: un pianto che lavò un altro pianto, in quel pezzo di mondo nutrito dal sangue e dalla carne dei credenti, comandato – da Bova fino a Polsi - da santi miracolosi. Ma distanti.
Fu il fuoco di Carrà l’ultimo rifugio, col suo calore che ristora l’anima e che blasfemo cuoce a puntino pietanze di ogni genere, distribuite ai viaggiatori con generosità. Quando il calore arrivò alle ossa, arrivò il sonno. La pioggia batté inutilmente, e per tutta la notte, alle finestre chiuse.
L’indomani dalla valle, debolmente riscaldata, si levò l’odore selvaggio dell’Aspromonte, e i mosconi tornarono padroni del rinnovato silenzio: fu aria di pace e di malinconia per me che non avevo alcuno da invocare se non te, votata a San Leo che eri appena un batuffolo bianco, figlia dei boschi e della montagna, anima semplice a cui tutto appare sempre così normale.
Che fosse la normalità la risposta. Forse la salvezza.
San Leo… pensai.