
Dalla morte di “Re Bomba” all’ingresso di Garibaldi in città, tutti gli avvenimenti che accompagnarono i suoi anni al palazzo del municipio furono di una intensità straordinaria. Compreso il matrimonio tra Francesco II e Maria Sofia di Baviera, ultimo evento di grande fastosità di una dinastia che si avviava fatalmente al tramonto, che lo vide nei panni di organizzatore dei festeggiamenti civili. Non c’è dubbio però che la parte più interessante del volume è quella che riguarda la trattativa tra il Pignone e Garibaldi, che precedette l’ingresso di quest’ultimo in città il 7 settembre 1860. È una pagina di storia drammatica, in cui sui consuma la fine del regno borbonico e, tra tradimenti e cambi repentini di casacca, il passaggio di consegne delle chiavi della città all’ “Eroe dei due mondi”. Emblematica a tal riguardo è la scena della partenza del re per Gaeta, descritta piacevolmente da Diego: “Il momento era arrivato, il Palazzo Reale salutava per sempre Franceschiello e la sua Corte. Francesco II non lo immaginava, ma la sua città non la rivedrà più. Uscito dal palazzo in carrozza, con la moglie Maria Sofia e due gentiluomini di corte, si accorse che più avanti nella farmacia reale del dott. Ignone, ancora poche ore prima suddito devotissimo, alcuni operai stavano staccando dall’insegna i gigli borbonici”. Sul piano storiografico spicca in particolare il rifiuto del sindaco Pignone di decretare l’annessione di Napoli al Regno Sabaudo, prima che Garibaldi ne assumesse il governo. Si trattò di un estremo sussulto di dignità di fronte alle pretese di Cavour e dei piemontesi. Più un gesto simbolico in verità, che un atto dalle conseguenze politiche significative e durature: un mese dopo sarà lo stesso Garibaldi a firmare il decreto di indizione del Plebiscito che formalizzerà l’annessione dei territori che furono del Regno delle Due Sicilie al nuovo Regno d’Italia.
L’8 settembre del 1860, il giorno dopo l’ingresso di Garibaldi a Napoli, il marchese d’Oriolo rassegnava, irrevocabilmente, le dimissioni dalla carica di sindaco. Il Dittatore avrebbe voluto che rimanesse al suo posto, ma Giuseppe Pignone fu irremovibile, dando così prova della sua coerenza, ma anche una lezione di dignità in un frangente della storia meridionale in cui a predominare erano abbondantemente il trasformismo, l’opportunismo, i voltafaccia. E che Garibaldi avesse in gran considerazione questo nobile calabrese, lo si evince dalla parole che gli dedicherà in una lettera del 10 settembre 1860: “So che l’opera Sua, a giudizio dell’universale, è riuscita utilissima al Municipio, e di ciò, che la onora, io pure le rendo grazie. Confido che non sia lontano il momento in cui io possa rivederla in qualche pubblico ufficio, degno di Lei”. Rimane un dubbio, in ogni caso: incontrando Garibaldi a Salerno, il Pignone volle solo concordare il suo ingresso in città, in modo da evitare inutili spargimenti di sangue oppure volle contribuire, sia pure indirettamente, alla sua impresa di unificare l’Italia? Difficile a dirsi, e questo il libro non ce lo dice. Forse entrambe le cose, il che sarebbe stato anche plausibile, vista la temperie.